Una Sala Corrado Sforza Fogliani del PalabancaEventi gremita ha fatto da cornice alla cerimonia di consegna del “Premio Gazzola 2024”, giunto alla sua diciannovesima edizione, assegnato al restauro del Castello di Gambaro di Ferriere e dedicato ad uno dei fondatori del riconoscimento, mancato di recente: Carlo Emanuele Manfredi.
«Era il nostro pilastro – lo ha ricordato Domenico Ferrari Cesena, che insieme al dott. Manfredi e a Marco Horak istituì nel 2006 il Premio intitolandolo alla memoria di Piero Gazzola, architetto piacentino -, un grande protagonista della vita culturale della nostra città che ci mancherà».
Dopo i saluti del presidente della Banca di Piacenza Giuseppe Nenna («Fin dalla sua istituzione la Banca ha sostenuto questo premio, che abbiamo vinto anche noi nel 2020 con il restauro di questo palazzo, un sostegno sempre condotto in tandem con la Fondazione di Piacenza e Vigevano»), il prof. Ferrari Cesena, che ha coordinato l’incontro, ha annunciato per l’anno prossimo un «programma speciale per festeggiare l’edizione numero 20».
La 19 ͣ edizione ha dunque scelto di valorizzare il restauro del maniero del minuscolo borgo dell’Alta Valnure “per i radicali e straordinari lavori – si legge nella motivazione del Comitato del Premio Gazzola – compiuti dai suoi proprietari (i coniugi Clara Mezzadri e Valentino Alberoni, ndr) nell’ultimo decennio”. Un complesso intervento di recupero seguito dagli architetti Massimo Ferrari e Marco Jacopini.
GLI INTERVENTI
La parola è quindi passata agli autori dei contributi raccolti nel consueto “Quaderno” dedicato all’edificio premiato (distribuito a fine serata a tutti gli intervenuti), che hanno riassunto quanto si trova nella pubblicazione curata dal prof. Ferrari Cesena e dal prof. Horak.
Giorgio Eremo ha ripercorso la storia del castello, la cui costruzione iniziò negli ultimi decenni del 1500 su iniziativa di Pier Francesco Malaspina (il borgo era sede del marchesato di Gambaro e degli Edifizi); nel 1624, alla morte del marchese Malaspina, la Camera ducale farnesiana avocò a sé tutti i suoi beni. Ranuccio II concesse poi il feudo ai Landi di Rivalta, che a fine ‘700 lo vendettero ai Bacigalupi (famiglia di notai liguri); in epoca napoleonica il castello fu sede comunale.
La storia del castello
«Fino all’immediato dopoguerra – ha spiegato il dott. Eremo – l’edificio era in discrete condizioni, che divennero critiche dal momento che non fu più abitato. Nel 1970 il primo crollo, con la Sovrintendenza che diede la disposizione di abbattere le strutture pericolanti. Per 25 anni il castello fu abbandonato e depredato, i crolli si susseguirono fino ad arrivare ad un ammasso di ruderi». Nel 1995 fu avviato un progetto di recupero (curato dall’architetto Benito Dodi e dal geom. Polo Negri) per iniziativa dei fratelli Lando e Lanfranco Tagliaferri; progetto che fu realizzato solo parzialmente.
«Fortuna volle – ha concluso il dott. Eremo – che nel 2006 il castello venisse acquistato dagli attuali proprietari i quali, con un considerevole sforzo economico e sacrificio personale, animati da tanto amore per lo storico edificio, ne hanno portato a termine il recupero, secondo le indicazioni della Sovrintendenza, compiendo un vero miracolo grazie agli architetti Ferrari e Iacopini».
Un maniero importante
Marco Horak ha dal canto suo evidenziato «l’imponenza del maniero» che contrasta con il nostro comune sentire nei confronti di questi paesini del nostro Appennino. «Oggi Gambaro ha una ventina di abitanti – ha osservato il prof. Horak – ma un tempo questi centri pullulavano di vita e basavano la loro economia sull’agricoltura e la silvicoltura; in Alta Valnure rilevante era anche l’attività mineraria. E l’importanza di Gambaro è testimoniata da un dipinto che fino a 25 anni fa era collocato in un salone del castello». Si tratta del ritratto, probabilmente, di Ippolito Landi, studioso erudito che faceva parte del Collegio dei dottori e giudici di Piacenza. La famiglia Landi è una delle quattro casate che reggevano le sorti della città di Piacenza (insieme agli Anguissola, agli Scotti e ai Fontana). Difficile, invece, formulare ipotesi su chi possa averlo eseguito.
L’altare della chiesa parrocchiale
Fabio Obertelli ha offerto un approfondimento su una pala d’altare presente nella chiesa parrocchiale di Gambaro fino al 1711 (fu poi “rapita” da Francesco Farnese che la volle nella sua collezione d’arte e ora è esposta nel Museo di Capodimonte a Napoli, come tutti gli altri tesori dei Farnese). Simon Mago – questo il titolo dell’opera definita dall’oratore «strepitosa» – divide gli storici rispetto all’attribuzione: quando entrò nella collezione Farnese si pensava realizzata da Giovanni Lanfranco; quando venne portata a Napoli, però, già si ritenne realizzata da Ludovico Carracci ma portata a termine da qualche suo allievo, stante la differente qualità pittorica dello sfondo.
La famiglia Bacigalupi
Lorenzo Bocciarelli ha raccontato la storia della famiglia Bacigalupi, che subentrò nella proprietà del castello di Gambaro verso la fine del ‘700, quando il dott. Angelo Giuseppe Bacigalupi, notaio di Santo Stefano d’Aveto dal 1785 al 1801, acquistò l’intero feudo dai Landi. Fu anche Podestà e fu l’ultimo Commissario ducale della giurisdizione feudale di Gambaro. Il castello fu sede del Comune nei secoli XVIII-XIX (e dal 1930 ospitò la scuola di Ferriere). I Bacigalupi si estinsero nel 1955 e il castello venne trasformato in un’azienda agricola: fu l’inizio del suo declino.
Un lavoro durato quasi 10 anni
Gli architetti Ferrari e Icopini hanno quindi illustrato i lavori durati quasi 10 anni, sottolineando come il restauro sia stato impostato con l’intento di «riportare alla luce la storia del manufatto attraverso antiche tecniche di ricostruzione concordate con la Sovrintendenza». Sono stati utilizzati materiali di recupero ed è stata ridata all’edificio la forma geometrica originaria, riportando i locali alle dimensioni preesistenti. Dai professionisti una lode alle maestranze dell’Alta Valnure utilizzate nel cantiere.
È seguita la cerimonia di premiazione dei proprietari del castello da parte del prof. Horak, mentre Gian Paolo Bulla, già direttore dell’Archivio di Stato, ha consegnato il riconoscimento agli architetti Ferrari e Iacopini.
Clara Mezzadri ha infine ringraziato il Comitato del Premio («per aver acceso un faro sulla montagna piacentina»), la Banca di Piacenza, la Fondazione e «i tantissimi amici che in questi anni ci hanno sostenuto moralmente aiutandoci a raggiungere un obiettivo che sembrava impossibile».
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