La Nefrologia dell’ospedale di Piacenza utilizza sperimentalmente, come centro pioniere in Italia e in Europa, un nuovo farmaco che potrebbe costituire una nuova ed efficace terapia per la cura delle glomerulonefriti. A stimolare l’importante attività di ricerca del reparto è stato il caso di Andrea, paziente poco più che quarantenne, sportivo e in buona salute generale. Il nome è ovviamente di fantasia, per proteggere la privacy della persona che qualche mese fa si è presentata al reparto con disturbi quali gambe gonfie, pressione alta e stanchezza e un’iniziale insufficienza renale. Grazie alla biopsia renale e alla sinergia con l’Anatomia patologica diretta da Adriano Zangrandi, l’equipe guidata da Roberto Scarpioni è giunta a una diagnosi: Andrea soffre di nefropatia da IgA, malattia che – se non curata – nella metà dei casi può portare anche alla dialisi. A Piacenza il reparto segue attualmente una cinquantina di pazienti con la stessa patologia, per la quale non esiste una terapia specifica e condivisa. “Abitualmente – spiega il primario – si utilizza cortisone ad alte dosi per 6 mesi, con tutti i rischi connessi e senza una sicurezza di guarigione”.
La malattia può presentarsi a qualsiasi età, ma con un picco di incidenza nella seconda e terza decade di vita. Nei maschi ha un’incidenza doppia rispetto alle femmine. Le cause sono ignote, tanto che l’equipe di Nefrologia stava già partecipando a uno studio con la Columbia New York University e l’Università di Brescia per indagare le determinanti genetiche delle patologie glomerulari renali, unendo alle metodiche osservazionali e laboratoristiche tradizionali le più moderne tecniche di analisi del DNA. Dopo la collaborazione con l’ateneo americano, i ricercatori piacentini hanno trovato negli Usa la traccia di una cura sperimentale per la nefropatia da IgA. Pensando al caso di Andrea, i medici sono riusciti a partecipare a uno studio sperimentale per testare un nuovo farmaco, che potrebbe dare la giusta risposta alla patologia glomerulonefritica.
“Si profila una terapia rivoluzionaria – evidenzia il dottor Scarpioni – con Narsoplimab (OMS-721) un anticorpo monoclonale umano contro mannan-associated lectin-binding serine protease_2 (MASP-2)”.
Il farmaco innovativo, somministrato in flebo, blocca l’attivazione del complemento, un meccanismo di difesa dell’organismo che scatta in caso di infezione. “Con OMS-721 si arresta l’eccessiva attivazione di questo processo in maniera chirurgica, altamente selettiva, riducendo molto gli effetti collaterali di altre cure”.
La terapia, testata negli USA, si sta applicando proprio in questi giorni in Europa e Piacenza è il primo centro in Italia dove si sperimenta, presto seguita da altri due poli universitario ospedalieri che hanno aderito alla ricerca.
“Noi abbiamo ottenuto nei giorni scorsi dal Comitato etico di Area Vasta le necessarie autorizzazioni per condurre lo studio”. Così Andrea è stato sottoposto alla prima di 12 flebo che lo aspettano. A seguire la somministrazione del farmaco e il necessario monitoraggio ci sono, oltre al primario, la nefrologa Teresa Valsania e l’infermiera Raffaella Zangrandi. “La prima infusione non ha dato alcun problema, come ci aspettavamo sulla scorta dei minimi effetti collaterali già testati negli Usa”.
L’equipe di Nefrologia ha quindi già avviato la procedura per coinvolgere un secondo paziente.
“Questa sperimentazione è per noi un motivo di grande orgoglio e ci sprona a fare sempre di più, in stretto collegamento con tanti colleghi nazionali e internazionali, per trovare le migliori risposte per i nostri pazienti”. Il promettente farmaco, conclude il dottor Scarpioni, è stato utilizzato anche nella attivazione della cascata infiammatoria nell’infezione da Covid e lo si sta testando anche per la cura del danno renale da Lupus eritematoso.
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