Chi si scontra con irregolarità nell’applicazione del contratto nazionale del lavoro e chi si scontra invece con la mancanza di dialogo e apertura da parte dell’azienda. Ma il risultato è il medesimo: donne che faticano a conciliare il lavoro con il ruolo di madre e che in alcuni casi non hanno altra soluzione che rinunciare all’impiego. Con comprensibili ricadute negative sulle finanze della famiglia. In poco tempo, il sindacato UGL si è ritrovato di fronte a diverse storie, differenti nei dettagli ma similari alla base.
Un concentrato di episodi analoghi che ha spinto il segretario provinciale, Pino De Rosa, a una riflessione: “Si fa un gran parlare di rispetto verso la donna, di pari opportunità, giusto? Iniziamo risolvendo la questione legata all’essere madre, si faccia qualcosa di concreto: altrimenti restano solo ipocrite parole. Analizzando i casi che approdano sulla nostra scrivania ci sorprende un dato: parlando di aziende che impediscono una madre di lavorare serenamente, emerge che spesso i titolari, i proprietari o i datori di lavoro di queste ditte sono esse stesse donne. Anche nei casi dove la legge viene rispettata, spesso la parte datoriale sceglie di non andare incontro ai bisogni delle lavoratrici. Verrebbe da pensare che la mancanza di rispetto nei confronti delle donne non c’entri col genere, ma con il fatto di avere o meno potere”.
La cooperativa sociale
La prima storia riguarda una ragazza-madre residente nella provincia di Lodi e impiegata presso una cooperativa sociale della nostra città. Il lavoro è strutturato su più turni. Il problema è che, contravvenendo al contratto nazionale del lavoro, la cooperativa comunica i turni ai propri dipendenti da un giorno all’altro. “Mi sono ritrovata persino a restare a casa tutta la settimana per poi ricevere una telefonata al venerdì con cui mi veniva comunicato che avrei lavorato il sabato, ovvero il giorno successivo”. Organizzarsi con l’asilo o la scuola è impossibile e così la ragazza si rivolge al sindacato UGL, anche perché questa gestione dei turni e degli orari non è permessa dalla legge.
Ma la cooperativa rifiuterà sempre di dialogare col sindacato, rifiutando anche di correggere la propria condotta in tema di gestione turni. Due gli incontri all’Ispettorato Territoriale del Lavoro, conclusi con un mancato accordo. Un giorno, era un sabato in cui la giovane aveva accettato di fare gli straordinari, la ragazza riceve a mano una lettera di trasferimento con la raccomandazione che sarebbe stato meglio per lei firmarla. Ma la ragazza non ci sta, chiede di incontrare il proprio referente sindacale, ma la richiesta viene rifiutata. I toni si alzano e la ragazza, che soffre di una particolare forma di attacchi di panico, inizia a sentirsi male.
Si ritrova nello spogliatoio con la propria titolare: “Ho chiesto di poter interrompere il lavoro per un attimo perché stavo molto male, ma la titolare ha chiuso la porta dello spogliatoio e mi ha risposto ‘Ci hai dato tu la disponibilità per oggi, se adesso te ne vai io non ho più nessuno al lavoro’. Ho cercato di resistere ma quando la situazione rischiava di peggiorare pericolosamente ho scelto di raggiungere il pronto soccorso senza l’autorizzazione della titolare”. Ora la ragazza, supportata dal sindacato, ha avviato una procedura legale contro la cooperativa.
Nessuna certezza per il futuro, costretta alle dimissioni
La seconda storia riguarda una ragazza ex impiegata in un’azienda casearia della provincia. La giovane ha una figlia. Premessa. Fino al compimento di un anno della bimba qualunque donna ha diritto ad avere l’allattamento (lavorare 6 ore per averne retribuite 8). Scaduto l’anno, ogni donna ha due possibilità: o trovare il modo di continuare a lavorare oppure può recarsi all’ispettorato territoriale del lavoro e dimettersi. In quest’ultimo caso la donna può ottenere la NASPI (indennità mensile di disoccupazione) per due anni. Ebbene, torniamo al caso specifico. La giovane madre in questione non può in alcun modo affidare la bimba ai genitori, né i suoi né quelli del marito, e il marito gestisce un negozio in città (la coppia è di una zona della provincia piuttosto lontana dal capoluogo).
La ragazza comprende che, terminato l’anno di allattamento, il problema lavoro-gestione della figlia si presenterà in maniera molto radicata e decide così di affrontare in anticipo la questione con l’azienda. Il sindacato UGL, prima della fine dell’allattamento, chiede un incontro alla ditta per definire eventuali soluzioni offrendo anche una possibile riduzione dell’orario di lavoro per la propria assistita. Durante l’incontro la ragazza fa presente che per lei sarebbe ideale lavorare la mattina per poi tornare a casa il pomeriggio. L’azienda inizialmente accetta avanzando l’ipotesi di un orario dalle 6 alle 14,30, proposta che alla lavoratrice calza a pennello.
C’è un problema, però: l’azienda propone quell’orario solo per sei mesi promettendo solo in forma ufficiosa che in caso di necessità l’orario sarà confermato. Non solo: la soluzione avrebbe avuto effetto retroattivo, partendo cioè da quando la madre era rientrata in azienda, ovvero due mesi prima. “Avrei avuto un orario ideale, certo, ma solo per quattro mesi senza alcuna garanzia per i mesi successivi. Dovevo scegliere se accettare quella proposta avvolta da incertezza o garantirmi la NASPI, avevo pochi giorni a disposizione prima dello scadere dell’anno di allattamento. Ho dovuto scegliere la certezza della NASPI”.
In missione (non a caso) quando la scuola è chiusa
La terza ragazza, anche lei ragazza-madre residente nel Lodigiano, lavorava per una nota azienda con due punti vendita a Piacenza e provincia. La ragazza, che è anche referente sindacale dell’UGL, riporta al proprio sindacato un fatto: la direzione dell’esercizio piacentino ogni tanto invia alcuni dipendenti al punto vendita di Stradella. Per capire il perché di questa usanza, UGL chiede alla direzione un incontro.
Ma poco prima dell’incontro, la ragazza che si è fatta portavoce viene mandata in “missione”: l’azienda centrale, cioè, dispone trasferimenti temporanei di dipendenti in filiali che hanno necessità di personale, un provvedimento del tutto legale e al quale il lavoratore non si può opporre, a differenza del trasferimento. Cercando di capire la situazione a 360 gradi, UGL si imbatte in una scoperta: i certificati di idoneità alla mansione dei lavoratori erano tutti scaduti.
A quel punto UGL fa presente all’azienda che dipendenti vengono mandati in missione senza nemmeno sapere se quei dipendenti sono idonei. Non solo, la ragazza accetta di andare “in missione” ma chiede di non essere mandata quando la scuola è chiusa: l’azienda inizialmente accetta, per poi però inviarla proprio di sabato, quando la scuola è chiusa. Il sospetto che la scelta non sia casuale si fa largo, soprattutto dal momento che a questo episodio si lega anche la mancata ricezione di buoni aziendali, elargiti a tutti i dipendenti ma non a lei, situazione che farebbe emergere anche lo spettro del mobbing.
Unica consolazione in questa vicenda, come spiega De Rosa, è l’atteggiamento della consigliera di parità, Venera Tomarchio, alla quale il sindacato si è rivolto e che ha mostrato massima collaborazione, dedizione e impegno nel tentare di risolvere la questione.
Pausa pranzo non retribuita
La quarta ragazza lavorava nel polo logistico di Castel San Giovanni, all’interno del grande magazzino di una nota firma di abbigliamento (non direttamente impiegata dalla nota firma, bensì appartenente a una seconda azienda che fornisce manodopera). La ragazza ha un figlio e chiede di fare l’allattamento. L’azienda accetta, ma allo stesso tempo chiede alla giovane di fermarsi in azienda per la pausa pranzo. Pausa pranzo non retribuita. Di conseguenza la ragazza si ritrova a lavorare 7 ore su 8. L’UGL scrive all’azienda la quale però non da risposta. Unica soluzione rivolgersi all’ispettorato del lavoro: la vicenda è fresca e non ha ancora una fine. L’unica cosa possibile è augurare alla lavoratrice un forte in bocca al lupo. Come a tutte.
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