Centocinquanta giovani incontrati da inizio anno. Per strada: nei giardinetti, nei parchi, nelle zone periferiche, vicino ai campetti dove fare due tiri a calcetto o a basket. Quasi tutti in età scolare, dai 14 ai 17 anni (ma ce ne sono anche over-18), in prevalenza maschi. “Forse nemmeno il 10 per cento di quelli che avrebbero bisogno di sostegno” puntualizzano Emilio Asti (Fondazione La Ricerca) e Tommaso Corvi (Famiglia Nuova di Lodi) due educatori incaricati di scendere in strada per andare a cercare i “casi più difficili. Chi dice che fuma hashish per scacciare un malessere, chi semplicemente per sentirsi accettato nel gruppo. Hanno spesso problemi con la scuola, fallimenti nello studio, fuggono dalle mura domestiche, preferiscono starsene per ore in strada, su una panchina, qualcuno ha compiuto qualche piccolo reato. Tra loro insorgono tensioni che sfociano in risse per un nonnulla”.
Obiettivo: intercettare le compagnie “più a rischio”
“Il consumo di sostanze non è che una delle tante manifestazioni borderline, c’è chi si è già avvicinato al gioco d’azzardo, ci sono situazioni particolarmente problematiche legate alla sfera sessuale specie tra le giovanissime, gruppetti che si danno appuntamento tra bande per darsene di santa ragione”.
Emilio e Tommaso cercano un confronto libero (“In sei casi su dieci siamo riusciti ad instaurare una relazione”). Si muovono a piedi in diverse parti della città, zona attorno a via Morigi, l’Infrangibile, la Lupa, la Farnesiana… E non sono i soli. “Sul territorio ci sono diverse agenzie educative che lavorano con i ragazzi, presidiando zone diverse, evitando di sovrapporsi. Per quel che ci riguarda, noi due ci spostiamo due-tre pomeriggi a settimana. Puntiamo ai target di grave marginalità. Talvolta ci serviamo anche dell’Unità mobile di prevenzione, un piccolo furgone messo a disposizione dalla Ricerca. Sostiamo in luoghi ritenuti più ‘sensibili’, distribuiamo volantini, forniamo spiegazioni su rischi e conseguenze dell’abuso di sostanze, facciamo sperimentare gli occhialini che simulano le sensazioni di alcolemia. Ma privilegiamo le uscite a piedi, perché relazionarsi in maniera diretta è molto più efficace”.
Il progetto finanziato dal SerDP
Sono gli attori sul campo di un progetto finanziato dal SerDP (Servizio Dipendenze Patologiche) di Piacenza – Tag 2.0 (che sta per Teens are growing, “gli adolescenti crescono”) – che è finalizzato a intercettare forme di disagio nel ‘sommerso’, ovvero in quella parte di popolazione che non è attualmente in carico formalmente ai servizi più strutturati.
“In linea con le indicazioni regionali e sulla scorta di una formazione specifica sugli interventi di prevenzione basata sugli standard di qualità europei di prevenzione, stiamo analizzando i dati di efficacia degli interventi che svolgiamo sul territorio e che teniamo raccordati in un tavolo di monitoraggio a convocazione periodica – spiega Elena Uber, Direttora della Unità Operativa Dipendenze Patologiche della Ausl cittadina – “questa presenza esterna ai servizi specialistici consente quella prossimità e conoscenza del consumo di sostanze nel mondo giovanile e della marginalità adulta, fondamentale per un approccio informato e non giudicante a un fenomeno in costante evoluzione nelle sue dimensioni sociologiche e antropologiche”.
“Non potremmo operare efficacemente sul piano clinico se non avessimo questo sguardo operativo sul mondo giovanile, in raccordo con le Forze dell’Ordine ma con altra funzione, quella di sollecitatori di domande e suggeritori di proposte. Conoscere alcuni ragazzi “sul campo” ci ha permesso di affrontare snodi problematici in situazioni che mai sarebbero afferite ai Ser.DP”.
Un servizio partito nel 2021
Partito nel 2021 con l’attivazione del dispositivo dell’educativa di strada e di uno Spazio Diurno (presso l’oratorio di San Giuseppe Operaio), il servizio è gestito in parternariato da due realtà esperte in campo educativo, come appunto La Ricerca e Famiglia Nuova. Il piano d’azione prevede anche, in stretta sintonia con il Servizio Dipendenze dell’Asl, una mappatura del disagio (dove, come e perché si manifesta, in quali situazioni, come e quanto c’è speranza concreta di migliorare le cose) cercando di costruire una rete di riferimento territoriale che spazi anche in ambito formativo, sportivo, scolastico e lavorativo andando oltre la mera assistenza.
L’aggancio degli educatori avviene in modo informale
Può servire anche una battuta. “Ci avviciniamo, ci presentiamo e spieghiamo perché siamo lì. Al massimo incontriamo indifferenza, non capita quasi mai che ci respingano. Alla fine ti accorgi che i giovani hanno voglia, anzi bisogno, di parlare. E piano piano, quando si riesce a conquistare un po’ di fiducia, ecco che si apre uno spiraglio. Alcuni si confidano, raccontano della loro vita, dei problemi che li affliggono, della famiglia, degli amici. C’è chi si esprime con violenza e termini pesanti.
Allora il nostro sforzo è quello di far capire come anche una parola o un semplice gesto possano far male e causare guai anche a chi li compie. Cerchiamo di capire come funzionano le dinamiche del gruppo, puntiamo a rafforzare gli aspetti positivi, individuiamo quali possono essere i leader capaci di promuovere azioni costruttive alternative alla noia”.
La fase successiva, più delicata e che abbisogna di tempo, è quella che punta a stimolare le potenzialità e a valorizzare le risorse di ognuno: “Ad esempio quando ci parlano di desideri e aspirazioni, facciamo di tutto per offrire loro un sostegno, magari proponendo la frequentazione di corsi, stimolandolo a cimentarsi nello sport preferito e, perché no?, nel volontariato. Tutto evolve in maniera molto graduale, i risultati richiedono pazienza e impegno, per vederli può essere necessario qualche anno”.
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