Economia

Corrado Sforza Fogliani interviene sulla situazione delle banche in questo momento storico

Riceviamo e pubblichiamo la nota del Presidente del Comitato Esecutivo della Banca di Piacenza Corrado Sforza Fogliani.

In tutto il mondo, in questo momento storico, le grandi banche crescono per linee interne: si sviluppano, si espandono. Grosse e piccole, hanno i loro mercati, i loro clienti.  Da noi, è il rovescio: le grandi banche sanno solo fagocitare le medio-piccole, o comperarle magari a un euro dopo che i loro giornali (e comunque il pensiero unico internazionale) le ha rovinate, dicendo di loro il peggio del peggio, in accordo con chi ha fatto di tutto per screditarle (come è successo con le famose 4 banche, la madre di tutte le disgrazie territoriali, come se anche grosse banche – basti ricordare Mps – non fossero andate male). 

Così, noi ci avviamo a passo di corsa – incoscienti, come ballando sul Titanic – all’oligopolio bancario e facciamo anzi – ora –leggi golden power, per difendere il sistema attuale (di favore per le grandi), con il credito alle piccole e medie aziende che non lo fa più nessuno dove non c’è una banca di territorio, con la concorrenza tra banche che è un ricordo ottocentesco (che fece l’Italia grande).

Anche qua, l’opposto delle nazioni accorte, tutte: in Francia e in Germania, le banche di territorio pullulano e crescono; per non parlare – ad esempio – degli Stati Uniti e del Canada, dove il credito è fatto – in gran parte – da banche territoriali, cooperative. Qua, i due sistemi convivono, e l’economia prospera. Ogni azienda ha la banca adatta, di contatto e di dimensioni. 

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Ora, la riuscita operazione di Intesa ha nuovamente fatto venire di moda – su più giornali, giornali pigri – il frusto discorso dei peana all’accorpamento. Accorpamento e basta, senza che nessuno riesca peraltro a dire perché l’accorpamento serva, soprattutto se giovi al tessuto di piccole medie aziende che caratterizza l’Italia. Le associazioni di categoria di queste aziende, dal canto loro, dormono: addormentate dalla caccia ai sussidi (per non dire all’elemosina), si guardano bene dal disturbare il manovratore (o i manovratori). I portatori del pensiero unico, dal canto loro, quando non parlano di accorpamento, parlano di consolidamento o di redditività.

Sono peraltro discorsi apodittici, basati su luoghi comuni.  Gli accorpamenti in sé, nessuno spiega perché siano il toccasana di tutti i mali. Mentre evidenti sono gli effetti negativi: accorpamento significa privare vaste zone del credito territoriale, significa eliminare – soprattutto – la concorrenza, fare la convenienza di chi rimane. Il consolidamento, poi, è una presa in giro: quasi tutte le banche piccole hanno un indice di patrimonializzazione superiore alle grosse; la media della patrimonializzazione delle banche popolari rimaste dopo la riforma contro di loro del 2015, è del tutto superiore. Quanto a redditività, da ultimo, non parliamone: qua, ogni discorso contro le territoriali, è improponibile.

A favore del sistema delle grosse banche, è rimasta la Borsa: logico, quando una banca di territorio non va bene, si prepara al banchetto, già pregusta il convivio, gli speculatori non possono che far festa (e fanno crescere i corsi borsistici). Sono rimasti – a favore dell’oligopolio – i giornaloni (tutti con partecipazioni di rilievo di grosse banche), sono rimasti – ancora – quelli del pensiero debole incoraggiato dai poteri forti. Ma rimane anche il punto fondamentale (al quale – devo dire – la Commissione di inchiesta sulle banche ha prestato grande ascolto, come ho potuto dire convocato in audizione).

Tutte le banche popolari che hanno dovuto obbligatoriamente convertirsi, dunque, sono oggi possedute da capitale estero, dai fondi speculativi esteri o europei. Proprio tutte (i dati sono sul mio libro Siamo molto Popolari, ed. Rubbettino). Di questo, e della fiumana di mezzi monetari verso l’estero che tale situazione determina, nessuno – finora – s’è curato. Tutti ad applaudire, incoscientemente. Di cosa capiterà all’Italia ed al suo sistema produttivo, non una parola. Di cosa capiterà ai nostri conti pubblici, tanto meno. E’ ora che la giusta politica si dedichi anche a questo. A preoccuparsi, quindi, del nostro futuro, dell’industria del credito (lasciando stare il solito ritornello sugli aiuti alle banche, che fa pena anche solo sentir insulsamente ripetere).

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