“Vittorio Emanuele III fu un Re discusso ma non fu lui a volere fascismo e leggi razziali”

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«Vittorio Emanuele III fu un Re discusso, ebbe però la sfortuna di vivere in un’età tempestosa e la storiografia ha sempre trovato comodo addebitare al sovrano “colpe” non sue». Questo il giudizio espresso dallo storico e saggista Aldo Alessandro Mola, protagonista del secondo appuntamento dell’Autunno culturale della Banca di Piacenza che si è tenuto questa sera al PalabancaEventi di via Mazzini (Sala Panini). Il prof. Mola ha presentato il suo volume “Vittorio Emanuele III. Il Re discusso” (Edizioni il Giornale – I Protagonisti) in dialogo con Corrado Sforza Fogliani (che ha sottolineato come il libro sia un pezzo raro, essendo andato esaurito in un solo giorno di permanenza in libreria, annunciando che c’è in cantiere una nuova edizione di un testo «molto ben documentato, di una piacevolezza di lettura straordinaria, che racconta l’essenziale ma è allo stesso tempo esaustivo»), volume nel quale l’Autore propone la riapertura di un confronto storiografico.

«Vittorio Emanuele III – ha ricordato il relatore – fu Re d’Italia per 46 anni, dal 29 luglio 1900 al 9 maggio 1946. Accettò la corona solo perché il padre, Umberto I, fu assassinato, ma non aveva gran voglia di salire al trono». A parere del prof. Mola il principe di Napoli «colto, erudito, dotato di memoria formidabile, dette esempio di freddo coraggio e cercò subito il consiglio di uomini saggi e indipendenti». Il problema, però, era che la monarchia si fondava sullo Statuto del ’48 di Carlo Alberto, dove il Re non era superiore alle leggi. A Vittorio Emanuele III vennero addebitate responsabilità «che non sono affatto sue», ha affermato lo storico piemontese, facendo quattro esempi: l’entrata in guerra del maggio 1915 («l’Italia, troppo debole per sostenere una guerra, non poteva comunque starne fuori e si schierò con Gran Bretagna, Francia e Russia; il Re, in pratica, non aveva scelta»); la crisi dell’ottobre 1922 con l’avvento del fascismo («Alcide De Gasperi approvò il nuovo governo Mussolini, che ebbe 306 voti a favore e 117 contrari alla Camera e 184 sì e 19 no al Senato, dove i fascisti erano solo due; dunque non fu il Re a volere il fascismo»); le leggi razziali del 1938 («non furono affatto responsabilità del sovrano, che le firmò perché erano state deliberate dalle Camere che, piaccia o meno, rappresentavano gli italiani»); l’armistizio dell’8 settembre («il 25 luglio 1943 Vittorio Emanuele III impose a Mussolini le dimissioni da capo del governo; il suo successore Badoglio, con ritardi imperdonabili, ottenne che gli anglo-americani concedessero all’Italia di arrendersi senza condizioni; a quel punto occorreva salvare la continuità dello Stato e per farlo vi era un unico modo, evitare la cattura della Famiglia Reale e del governo da parte dei germanici, senza metterci in braccio ai vincitori; per questo il governo decise il trasferimento da Roma a Brindisi, dove non vi erano né tedeschi né anglo-americani; si poteva fare di più tra il 25 luglio e l’8 settembre? Forse, ma come?»).

«Nelle fasi critiche – ha concluso il prof. Mola – Vittorio Emanuele III fece molto di più di quanto gli fosse richiesto dallo Statuto. Non agì però mai per sé, ma per quello che via via venne prospettato quale interesse generale dell’Italia: il male minore se non il vantaggio maggiore». All’illustre ospite il presidente Sforza ha consegnato, in ricordo della serata, la Medaglia della Banca.

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